Economie di montagna nel Bellunese

La Pitturina (Comelico)

La Valboite in veste invernale

Un mio lungo articolo/saggio uscito sulla Rivista del CAI “Dolomiti Bellunesi“, Estate 2020

Il numero di gennaio 2020 della rivista del CAI Montagne 360, ha affrontato opportunamente il tema delle nuove economie di montagna. In particolare si è soffermata sul fatto che, nonostante la crisi economica diffusa e lo spopolamento che coinvolge numerosi paesi di montagna, negli ultimi anni si assiste a un’inversione di tendenza. Coloro, soprattutto giovani, che hanno abbandonato la propria comunità e i campi per andare a cercare lavoro a valle o in città, tendono a tornare nei luoghi di origine magari per offrire nuove opportunità a sé stessi e al loro paese d’origine.  Cresce il senso di appartenenza ad una precisa identità e si torna ad investire in nuove forme di impresa, per lo più cooperative, oppure sul turismo, spesso quello emozionale, verso l’agricoltura soprattutto di nicchia, verso l’allevamento e la produzione enogastronomica.  Il tutto, evidenzia la rivista, contribuisce “alla costruzione di un futuro sostenibile. Per loro stessi, per i borghi, per le nostre montagne”.

Mi sembrano considerazioni molto importanti per delle riflessioni sul futuro economico delle terre alte. Si riscontra davvero una vivacità di studi, ricerche, riviste, libri che vanno in questa direzione. Case editrici, blogger, documentaristi, giornalisti, hanno incominciato a studiare in generale l’arco alpino e in particolare il Bellunese,  raccontando esperienze di riavvio di pratiche agropastorali e artigianali che sembravano destinate a scomparire solo pochi decenni fa. Senza dimenticare anche recenti successi editoriali e letterari, che hanno riavvicinato emotivamente la montagna, con le sue problematiche, a un vasto pubblico che la considerava solo nella sua veste più  bucolica e da “cartolina”.

Questi argomenti sono stati trattati anche nel fortunato volume curato da Federica Corrado, Giuseppe Dematteis e Alberto Di Gioia Nuovi Montanari (2014). Gli autori sottolineano un aspetto interessante che riguarda i cambiamenti nella domanda e nell’offerta turistica, aspetto determinante come sappiamo per molte vallate alpine, comprese quelle Bellunesi. Evidenziano infatti come sia in atto una riduzione, secondo la loro analisi addirittura drastica, del turismo tradizionale montano per lo più legato allo sci alpino di cui sappiamo l’impatto, in tutti i sensi purtroppo non solo economico, che ha in molte vallate. La crisi economica non ha comportato solo la vendita di molte “seconde case”, ma la domanda di un turismo più sostenibile, a contatto con la natura, con i suoi prodotti anche culinari, legato alla conoscenza culturale del territorio e delle sue tradizioni, più sano e più lento. L’aiuto di internet, dei social network, in generale della rete, ha facilitato una diffusione più capillare delle informazioni e delle offerte generando uno sviluppo consapevole e più diffuso anche in quelle vallate lontane dal business invernale. In questa trasformazione i nostri studiosi inseriscono i “nuovi montanari”, ovvero un ritorno alla montagna di singoli e famiglie anche in quelle vallate più marginali, i villeggianti delle seconde case che tendono a vivere sempre di più in montagna laddove possibile o addirittura a stabilirsi in modo permanente. Da questo punto di vista si segnala anche la larga presenza di abitazioni non occupate, con picchi superiori al 60% e persino 70% sul totale, soprattutto nei comuni del Cadore e dello Zoldano, seguiti da Comelico e Agordino. Un aspetto che, di primo acchito, andrebbe letto negativamente in quanto denota la presenza di un processo di spopolamento e invecchiamento della popolazione in atto ma che, visto da un altro punto di vista, potrebbe divenire un richiamo nei confronti di nuovi abitanti interessati ad insediarsi in ambienti caratteristici. La disponibilità di case abbandonate soprattutto in certi contesti, potrebbe facilitare l’insediarsi di nuove opportunità legate al settore primario o al wellness, valorizzando di conseguenza situazioni locali e promuovendo sviluppo economico. Ciò che spinge famiglie e, talvolta, imprese a insediarsi in montagna è, paradossalmente, la crisi economica che le porta alla ricerca di nuove opportunità di lavoro spesso associate alla possibilità di impiegare le risorse locali poco o male sfruttate. Scelte che, secondo gli autori, si legano anche “in modo diretto o indiretto ai grandi cambiamenti in atto nell’economia e nella società globalizzata, soprattutto per quanto riguarda la crisi occupazionale, la crisi ambientale, quella energetica e l’immigrazione dai paesi meno economicamente sviluppati”. I “nuovi montanari” sono anche coloro che intendono investire nel territorio, nell’agricoltura e nell’allevamento, nell’uso del bosco inserito nella filiera del legno e in generale in attività agro-silvo-pastorali.

La nuova idea di montagna per il XXI secolo, come riporta l’attento studioso Mauro Varotto nel volume Montagne del Novecento (2019), deve quindi avere formule diverse di produzione integrate alle esigenze di cura ambientale, solidarietà sociale, ospitalità diffusa. Così l’agricoltura ritorna ad avere un ruolo polifunzionale di salvaguardia idrogeologica, aggregazione sociale e realizzazione esistenziale, a supporto del tempo libero e attività creative. L’allevamento e la pastorizia tornano ad integrarsi con la terra a altri settori economici, cambiando pratiche e consuetudini nell’approvvigionamento foraggero, nella riutilizzazione dei prati e pascoli abbandonati, orientandosi ad una produzione lattiero-casearia di qualità. Infine l’attività turistica torna ad integrarsi con la memoria storica e il patrimonio di generazioni di montanari. Per fare tutto questo serve un sostegno minimo a questi territori garantendo livelli minimi di servizi amministrativi, sanitari, scolastici, ottenibili puntando sulla cooperazione, sulla multifunzionalità, sulla diversificazione, avvicinando, sottolinea bene Varotto, i centri di potere decisionale allo spazio montano, garantendo adeguati livelli di autonomia  gestionale e riconfigurando quella centralità amministrativa alpina erosa quasi ovunque eccezion fatta per le aree a statuto speciale.  A tal proposito, ritengo opportuno segnalare quanto riportano Diego Cason  e Michele Nardelli nel loro interessante volume Il Monito della Ninfea. Vaia, La Montagna, Il Limite (2020) in merito all’avanzata del bosco. Nella Provincia di Belluno, dal 1936 al 2016, la superficie forestale è aumentata del 77%.  In Trentino l’incremento annuo è più modesto e dal 1973 è stabile intorno all’1% annuo come in provincia di Bolzano, dove dal 1991 i boschi sono cresciuti dello 0,9%. Per Cason e Nardelli “emerge con evidenza che i territori montani dotati di strumenti di autogoverno locale hanno una gestione più efficiente del bosco e hanno saputo adottare idonee misure a sostegno dell’agricoltura e del pascolo in montagna”. Rimanendo nella specificità Bellunese, dal 1951 al 1991, rileva Fabrizio Bartaletti nel suo volume Geografia e cultura delle Alpi (2004), si è assistito al continuo spopolamento delle Alpi bellunesi soprattutto nell’Agordino e nel Comelico dove hanno influito sicuramente la mancanza di collegamenti e lo scarso sviluppo turistico. Dal 1991 al 2001 si blocca questo decremento nel bellunese grazie al miglioramento delle vie di comunicazione e alla diffusione della piccola industria, soprattutto occhialerie, e la presenza del turismo anche in zone differenti da Cortina, come Arabba, Falcade, Alleghe, val Zoldana. In particolare lo sviluppo dell’occhialeria rappresenta un evidente traino dal punto di vista economico che permette alla Provincia di Belluno una tenuta dal punto di vista socio-demografico, anche se non dappertutto con le stesse modalità, con il conseguente progressivo abbandono da parte della popolazione del poco redditizio settore primario e quindi dei campi (o degli alpeggi) a favore delle nuove attività industriali, con il solo mantenimento  dell’orto familiare.

Emilio Da Deppo, nei suoi interessanti volumi Cirolòide (2006) e La Trèide (2007) ha raccontato in modo molto accurato la vita nelle vallate cadorine dal dopoguerra al grande sviluppo dell’occhialeria, soffermandosi in particolar modo su Domegge di Cadore.  Realtà almeno fino agli anni ’60 prettamente agricole, nelle quali ogni famiglia aveva qualche capra o pecora, mucca, galline e maiali, si coltivava il granoturco (sòrgo), importante nell’economia famigliare assieme alle patate e ai fagioli che venivano coltivati in simbiosi e rappresentavano una valida alternativa  alla polenta.  Poi c’erano le “vare” concimate alle porte del paese che permettevano tre tagli di fieno all’anno, ed i “pra” che si estendevano fino ad altitudini di 1800/2000 metri e dai quali si ricavava un solo taglio. Il “fèi fièn” era una attività quasi a tempo pieno che impegnava tutta la famiglia. Con l’avvento dell’occhialeria, per un periodo di tempo, vi fu una fase “mista” ovvero si lavorava in fabbrica e contemporaneamente si coltivava e allevava una mucca a integrazione economica. Successivamente la produzione dell’occhiale prese il sopravvento con il graduale abbandono del settore primario e, di conseguenza,  anche della gestione del territorio.

Giuseppe Colferai, ex segretario Tessile-Occhialeria della Filctem Cgil di Belluno, oggi in pensione ma sempre attivo nel sindacato, mi conferma che c’era stato “un grande sviluppo del distretto dell’occhiale cadorino soprattutto negli anni’70 e ‘80 quando ogni casa, ogni famiglia in vallata si dedicava all’occhiale. Nel periodo di massima attività almeno 8000 addetti lavoravano nelle piccole-medie imprese del distretto”. La forza di questo incredibile sviluppo era sostanzialmente dovuta “alla capacità produttiva, al costo del lavoro relativamente basso e alla zero conflittualità anche grazie a una situazione economica in continua crescita”.  Poi la crisi con l’arrivo e lo sviluppo delle grandi marche come la Safilo, Marcolin, De Rigo etc.. che accentrano su di loro il mercato e soffocano le piccole e medie aziende, il passaggio dalla lira all’euro che rende lo stesso mercato molto competitivo e l’incapacità del distretto cadorino “di rinnovarsi, di puntare verso nuove tecnologie e nuovi particolari materiali: si è salvato solo chi aveva qualche produzione di nicchia” o, aggiungo io, si era differenziato sul mercato.

Oggi non siamo più nei tempi raccontati da De Deppo ma pure nel bellunese si assiste a un graduale ritorno alla terra e alle sue diverse potenzialità silvo-agro-forestali nonché a forme di artigianato tradizionale e sostenibile, che sono risposte alternative ma non in competizione o sostitutive del lavoro nelle fabbriche o nel manifatturiero (occhialerie). Concetto quest’ultimo, che più volte mi ha ribadito anche in incontri pubblici dove ho avuto l’onore di intervenire, lo scrittore alpagoto Antonio. G. Bortoluzzi.  Inoltre, risulta necessaria una diversificazione delle attività aziendali per il mantenimento del settore primario in montagna, che si traduce nell’offrire un prodotto “completo” accompagnato da valenze positive come la genuinità e tipicità. Ecco quindi che accanto ai soliti prodotti o colture, si introducono prodotti riscoperti e molto legati al territorio (orzo, fagioli, piante officinali, caprini) con attenzione ai marchi e certificazioni di qualità, al biologico, alle fattorie didattiche, inserendo la produzione agricola nella filiera turistica. Si torna a fare agricoltura sostenibile in montagna cercando strade nuove, magari riattivando antiche economie in modo responsabile e rispettoso delle identità dei luoghi e della loro storia. Vengono pertanto rispettate delle componenti di sostenibilità sociale ed economica nonché etica. Il contesto territoriale permette una trasformazione delle risorse naturali in alimenti ad alto valore nutrizionale oltre che ambientale. L’agricoltura alpina permette una importante interazione fra sostenibilità economica (valorizzazione dei prodotti, sviluppo equilibrato del territorio, diversificazione dei redditi), sostenibilità ecologica (gestione prati e pascoli, contenimento di gas serra e nitrati, conservazione della biodiversità, interazione con la fauna selvatica), sostenibilità socio-culturale (nuove figure di agricoltore e allevatore, individuazione paesaggi culturali, promozione turistica). A questo si aggiunge il ruolo culturale e ricreativo attraverso le diverse attività di recupero architettonico di rifugi, malghe e baite, in grado di favorire per la popolazione residente e per i turisti, esperienze di valore nel rispetto dei luoghi. Ci sono quindi risposte positive che ho potuto riscontare personalmente girando per lungo tempo le vallate bellunesi incontrando giovani e meno giovani che hanno riscoperto l’amore per la terra, per gli animali, accettando la sfida insidiosa del vivere e produrre in montagna. Nel mio libro Vivere in pendenza (2019) racconto diversi casi di questo tipo, esempi virtuosi dove i protagonisti risultano pienamente consapevoli del valore della loro scelta. Ma pure Cason e Nardelli nel loro libro citato in precedenza, raccontano storie di luoghi che cercano di rinascere malgrado tutto e, soprattutto, malgrado la tempesta Vaia. In Comelico, ad esempio, il progetto “Casa armonica” in Val Visdende, messo in piedi dal gruppo di lavoro Ri-Ambientiamoci, prevede la costruzione di un edificio in legno in una valle fra le più devastate dalla tempesta Vaia. Le piante abbattute si trasformeranno in uno spazio per la musica e in una sala di registrazione di strumenti musicali antichi. A realizzarla una squadra fra boscaioli, segherie, carpentieri e antichi produttori di strumenti musicali del Cadore. Rimanendo in Comelico, a Dosoledo dall’estate del 2019 è partita un’altra bella esperienza: il progetto “Ospitalità Diffusa Dosoledo” grazie al contributo della Regola di Dosoledo quale ente promotore e finanziatore e con la preziosa collaborazione della Società Cooperativa Lassù. Si tratta di persone che hanno deciso di unirsi e mettere a disposizione i propri alloggi ma soprattutto “la propria identificazione e conoscenza del territorio”. Un modello di ospitalità diverso rispetto a quello tradizionale di tipo alberghiero, molto attento alla storia e alla tradizione del posto. “Una ospitalità”, sottolinea l’architetto Daniela Zambelli della Cooperativa Lassù, “che permette sia una manutenzione del patrimonio edilizio esistente e sia di poter sviluppare un turismo sostenibile, attento al territorio e alle sue bellezze naturali e storico-culturali”.  Un altro progetto significativo me lo racconta la giovane cadorina Chiara Bressan che dopo le scuole superiori ha intrapreso un percorso scolastico fuori dalla provincia di Belluno, diventando educatrice professionale. Dopo le sue prime esperienze lavorative in vari servizi di diverse realtà del Nord Italia, ha deciso di ritornare a casa “perché l’amore per le montagne, mi ha sempre accompagnato, anche se ero distante 400 km dal Cadore, ma soprattutto sono ritornata perché mi piacerebbe investire ciò che ho imparato qui nella nostra provincia”. Ora Chiara è forza attiva della “Consulta Giovani del Cadore”, progetto ideato da Baldovin Mattia, di Domegge di Cadore, che intende unire i giovani cadorini per programmare azioni concrete per ridurre lo spopolamento e renderli partecipanti attivi del futuro della montagna. Nel concreto la consulta si propone di creare dei laboratori dedicati alla formazione delle nuove generazioni, in modo da far conoscere e riscoprire la montagna a 360° (temi riguardanti la cura del proprio territorio, l’agricoltura, il turismo, marketing e comunicazione). Lo scopo dei laboratori è quello di collaborare con le Associazioni del territorio, in particolare con il CAI, al fine di conoscere da una parte le potenzialità, risorse e caratteristiche delle nostre  montagne, ma anche per partecipare attivamente alle iniziative di ripristino, alla cura e alla manutenzione dei vari sentieri e allo sviluppo di un turismo consapevole. L’auspicio è quello anche di offrire la possibilità ai giovani di sperimentare quello che potrebbe diventare eventualmente una professione lavorativa (ad esempio guida alpina), avendo la possibilità di formarsi sul campo con esperti e professionisti del territorio. L’altra proposta riguarda la creazione di un centro studi finalizzato a catalizzare progetti e fondi europei che possano essere investiti concretamente nel territorio.

Tante idee, tante speranze e tanta voglia di fare da parte dei giovani la cui passione e motivazione non dovrà scontrarsi, ancora una volta, con la burocrazia e la poca attenzione politica verso le terre alte e la loro autonomia. Una scarsa attenzione che rischierebbe di fare emergere un numero di operatori e di realtà, più limitate rispetto a quelle potenzialmente interessate. 

Mencini Giannandrea

CAI Domegge

Bibliografia:

Montagne360, Nuove economie di montagna, gennaio 2020;

D. Cason, M. Nardelli, Il Monito della Ninfea. Vaia, La Montagna, Il Limite, Bertelli Editori, 2020;

M. Varotto, Montagne del Novecento. Il volto della modernità nelle Alpi e Prealpi venete, Cierre edizioni, 2019;

G. Mencini, Vivere in pendenza. Scelte di vita che cambiano la montagna bellunese, Supernova edizioni, 2019;

M. Varotto (a cura di), La montagna che torna a vivere, nuova dimensione, Portogruaro (Ve), 2013;

F. Corrado, G. Dematteis, A. Di Gioia, Nuovi Montanari. Abitare le Alpi nel XXI secolo, Franco Angeli, 2014;

E. Da Deppo, La Trèide, Grafica Sanvitese, (2007);

E. Da Deppo, Cirolòide, Grafica Sanvitese, (2006);

F. Bartoletti, Geografia e cultura delle Alpi, Franco Angeli, 2004;