Frodi ad alta quota

Articolo uscito sulla rivista Lavialibera n.10, 2021

Frodi ad alta quota

Le truffe per ottenere i fondi destinati ai pascoli sono diffuse in tutta Italia. Imprenditori e aziende agricole affittano terre per avere aiuti o evitare sanzioni. A farne le spese, le casse pubbliche, la montagna e chi la vive davvero

di Giannandrea Mencini, giornalista e scrittore

Per ottenere i fondi europei a sostegno di agricoltura e allevamento, quelli per incentivare le attività che valorizzano i pascoli montani, a volte non serve spaccarsi la schiena col lavoro. Bastano alcune firme e alcuni timbri piazzati sul documento giusto e consegnati entro le scadenze. Non è neanche necessario appartenere a famiglie mafiose, come avviene nel Parco dei Nebrodi, nella Sicilia nord-orientale, dove molti imprenditori agricoli legati ai clan locali hanno truffato per anni l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea), nonostante le battaglie dell’ex presidente dell’ente, Giuseppe Antoci, obiettivo poi di un agguato. Speculazioni, frodi e azioni al confine del lecito, per ottenere quei fondi, sono diffuse in moltissime altre zone d’Italia, da est a ovest, da nord a sud, centro e isole incluse. Negli ultimi anni l’Italia ha segnalato l’Ufficio europeo di lotta antifrode (Olaf) centinaia di casi sospetti per alcune decine di milioni di euro di contributi.

Il meccanismo. L’origine di questi sistemi di frodi va ricercata nella riforma del 2003 della Politica agricola comune (Pac) dell’Unione europea, un ambito a cui Bruxelles destina una grossissima parte del suo bilancio, circa 58 miliardi di euro su 160 nel 2019. Prima di quell’anno, il sostegno veniva assegnato in base alla produzione, agli ettari coltivati o al numero di capi di bestiame posseduti. Questa modalità di pagamento, definito “accoppiato”, è stata sostituita dal pagamento dei premi in modo “disaccoppiato”, ovvero gli aiuti sono erogati indipendentemente dalla produzione. L’obiettivo della riforma era quello di premiare la salvaguardia dell’ambiente, della salute pubblica e del benessere degli animali. Per farlo l’Ue ha stabilito di riconoscere alle aziende la proprietà dei cosiddetti “titoli” (gli ettari di terreno) come base per ottenere i contributi. In questo modo, gli agricoltori possono produrre o non produrre, ma ricevono comunque l’aiuto in forma di pagamento unico se rispettano alcune condizioni. Pertanto, per rispettare i nuovi parametri molte aziende sono corse a cercare pascoli liberi e disponibili in tutto il Paese e soprattutto in montagna. È stato proprio da quel momento che si è notata una domanda “drogata” di superfici montane affittate a canoni elevati rispetto al passato. C’è chi ha continuato le attività, ha investito sul territorio e sul lavoro, sulla qualità e le tradizioni; e c’è chi invece ha speculato creando società fittizie, sfruttando l’abilità nel muoversi tra carte e piattaforme digitali e contando sull’assenza di controlli. Dal 2006 ad oggi si sono riscontrati diversi casi, senza distinzione geografica o territoriale, di aziende agricole fittizie che ricevevano finanziamenti per il comparto zootecnico in modo illegale. Secondo i dati del Comitato per la lotta contro le frodi nei confronti dell’Unione europea, nel 2017 l’Italia ha trasmesso all’Olaf 339 casi sospetti di pagamenti disaccoppiati nel settore agricolo per un valore di 17,2 milioni di euro, 272 nel 2018 (17,8 milioni) e 299 nel 2019 (quasi 19 milioni di euro).

Le tappe del giro d’Italia. Nel Nordest, ad esempio, la corsa all’accaparramento dei pascoli è stata evidente. In Trentino, alcune grandi imprese con allevamenti intensivi in pianura hanno iniziato a procacciare terreni in zone montane innescando un forte incremento dei costi dell’affitto dei pascoli a scapito degli allevatori e malgari locali. Altre aziende, invece, raggiravano la legge facendo passare costoni di roccia, dirupi, sentieri di montagna come terreni di pascolo con cui ottenere i finanziamenti comunitari. C’era poi chi nel 2013, nel Bellunese, ha truffato l’Europa ricevendo contributi per la conduzione e lo sfalcio di prati montani, azioni in realtà mai eseguite. Francesca Dal Zilio, pastora del Monte Grappa, quest’estate mi ha raccontato di diversi ettari di pascoli abbandonati nel versante vicentino di questo massiccio: un allevatore aveva ottenuto la loro gestione e pagava regolarmente l’affitto, ma non ci portava gli animali. «Qui c’è un problema di mancata gestione del pascolo – constatava amaramente –. Gli animali non si vedono, ma i proprietari ricevono comunque i contributi e nessuno controlla». A giugno alcuni pastori della val Rendena (Trento) hanno deciso di non partecipare alla tradizionale manifestazione “Giovenche di razza rendena 2021” per protestare contro l’accentramento di un considerevole numero di malghe nelle mani di pochi soggetti col conseguente aumento spropositato dei canoni di affitto. Per questi storici allevatori montani, la normativa in vigore sta trasformando la montagna «in una sorta di paradiso fiscale per investitori senza scrupoli, fenomeno che, per questioni di concorrenza sleale, sta mettendo in croce le aziende tipiche e caratteristiche, che fino ad oggi con grande sacrificio sono rimaste attive sul territorio», sostengono in un comunicato.

Pascoli di carta. A Nord Ovest si parla diffusamente di truffe negli alpeggi. Nel 2017 in val Camonica (tra Bergamo e Brescia), i carabinieri forestali hanno scoperto un “cartello del malaffare” dove la truffa era basata sulla fittizia conduzione degli alpeggi che non avevano mai visto animali, ma che avevano reso più di 500mila euro di contributi dell’Unione europea nei soli anni 2016-2017. Nel 2019, la guardia di finanza aveva scoperto nei territori dell’Alto lago di Como e della Bassa Valtellina, sempre in Lombardia, delle società fittizie che – falsificando diversi documenti – avevano fornito a ben 91 aziende agricole un pacchetto completo di atti utili a richiedere più contributi aumentando virtualmente, quindi solo sulla carta, le superfici agricole in uso. Legambiente e Greenpeace denunciano un’altra pratica molto diffusa. In Lombardia si concentrano le più grandi aziende di allevamento intensivo. Qui vengono cresciuti circa la metà dei suini e un quarto dei bovini dell’Italia. Questo significa che c’è un carico di liquami da smaltire sui terreni eccessivo in rapporto ai territori che ospitano queste attività e c’è il rischio di sforare i parametri ambientali sull’inquinamento da nitrati. Per non pagare sanzioni elevate, bisogna dimostrare di avere a disposizione superfici agricole adeguate al numero di capi di bestiame. Per tale ragione queste imprese affittano i terreni ad alta quota.

Vanno anche segnalati casi di “pascoli fantasma” a Bardonecchia, in Piemonte, e a Etroubles, in Valle d’Aosta: in questa località nel giugno 2020 i carabinieri forestali hanno scoperto un imprenditore agricolo bresciano che aveva preso in affitto ettari di alpeggio portando alcuni animali “figuranti”, bestie malate al pascolo, per eludere i controlli e ottenere i fondi europei destinati alla transumanza.

Centro Italia incluso. Questi fenomeni speculativi sono diffusi anche in Centro Italia, nelle Marche, in Umbria e in Abruzzo. Qui è ancora più evidente la “coltivazione dei titoli” con vasti ettari di terreno affittati da grandi aziende non per i pascoli, ma per vedere fruttare i titoli di coltura in loro possesso. L’ultimo caso emerso in questo senso è quello di Calascio, paesino di montagna nella provincia dell’Aquila dove c’è stata una corsa all’acquisto di pascoli sui quali, però, non si vedono animali. Queste speculazioni mettono in crisi le aziende locali e, di conseguenza, le stesse comunità montane provocando risvolti pericolosi sia dal punto di vista sociale (spopolamento), sia ambientale (perdita di biodiversità e processi di forestificazione). Lo conferma sconsolatamente il pastore abruzzese Nunzio Marcelli, che gestisce un’azienda agrituristica ad Anversa degli Abruzzi. Nunzio pratica ancora la tradizionale transumanza: ogni anno si muove con le sue bestie nell’Appennino centrale e la sua esperienza è stata addirittura raccontata nel 2020 dall’edizione statunitense di National Geographic. Sulla questione dei titoli Nunzio è chiaro: «Sono truffe immorali, ma legittime, purtroppo, a causa dell’applicazione italiana della politica europea – spiega –. Vi sono dei margini per l’applicazione, a livello nazionale e regionale, che consentirebbero maggiore controllo e il rispetto dello spirito, cioè favorire l’estensivizzazione, le colture e i pascoli condotti in modo tradizionale, ma in Italia non vengono applicate in questo modo e spesso si è scelto di favorire le speculazioni». Nel 2023 entrerà in vigore la nuova Pac e l’Italia potrebbe, in presenza di una chiara volontà politica, recepirla rivedendo il sistema dei “titoli” che così tante speculazioni e truffe ha creato e continua a creare nelle nostre montagne.